Cosa (non) fa il diritto riguardo alla violenza maschile contro le donne?

June 25, 2025 00:20:40
Cosa (non) fa il diritto riguardo alla violenza maschile contro le donne?
About Gender. Studi d'altro genere
Cosa (non) fa il diritto riguardo alla violenza maschile contro le donne?

Jun 25 2025 | 00:20:40

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Show Notes

In questo episodio di About Gender. Studi d’altro genere, la Prof.ssa Isabel Fanlo Cortés, giurista e docente all’Università di Genova, ci guida in un’analisi critica del rapporto tra diritto e contrasto alla violenza maschile contro le donne.

Parliamo dell’evoluzione normativa in Italia in materia di violenza di genere, mettendo in luce i principali traguardi raggiunti ma anche le criticità ancora presenti, sia dal punto di vista legislativo che della sua concreta applicazione. Ci soffermiamo sulla recente proposta di legge sul femminicidio, esaminandone le possibili implicazioni e le problematiche che solleva. Infine, riflettiamo su come gli stereotipi di genere possano influenzare profondamente non solo l’opinione pubblica, ma anche le decisioni giudiziarie. Un episodio che invita a interrogarsi su cosa può – e deve – fare davvero il diritto per tutelare chi subisce violenza.

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[00:00:00] Speaker A: Gli studi di genere hanno pervaso ogni ambito del sapere. Molte persone, istituzioni e perfino interi stati continuano a screditarli o addirittura a proibirli. Ma questo li fermerà? Assolutamente no. Io sono Matteo Botto e questo è About Gender, studi d'altro genere. Oggi siamo qui con Isabel Fanlo-Cortes, professoressa associata di sociologia e del diritto nel Dipartimento di giurisprudenza dell'Università di Genova, in cui insegna anche diritto e genere, e anche la codirettora del nostro journal about gender. Ciao Isabel, è un piacere averti qui con noi oggi. [00:00:37] Speaker B: Ciao Matteo, grazie, il piacere è tutto mio. [00:00:39] Speaker A: Allora Isabel, il tema che vorremmo affrontare con te è quello che lega genere e diritto. Ovviamente è un tema enorme, però vorrei provare ad affrontarlo con te, iniziando da questa domanda. Quali sono stati i principali passaggi nell'evoluzione normativa del contrasto della violenza di genere in Italia? E a tuo parere ci sono ancora oggi delle criticità rilevanti dal punto di vista legislativo? [00:00:59] Speaker B: Beh, non si può negare che in questi ultimi decenni ci sia stata un'evoluzione legislativa importante in tema di violenza di genere, almeno se per violenza di genere intendiamo la violenza maschile contro le donne, perché un discorso parzialmente diverso sarebbe quello rispetto alla violenza homo-lesbo-transfobica. Anche per quanto riguarda la violenza maschile contro le donne, si tratta comunque di un'evoluzione relativamente recente. Perché? Perché il diritto per lungo tempo ha contribuito non solo a tollerare, ma addirittura a giustificare la violenza contro le donne. Basti pensare che fino al 1981 il codice penale italiano prevedeva il famoso delitto d'onore, in virtù del quale a colui che avesse ucciso la moglie, la figlia o la sorella per difendere l'onore proprio, quello della propria famiglia, poteva essere riconosciuta una consistenza e riduzione di pena rispetto a quella prevista per l'omicidio. O ancora pensiamo all'istituto del cosiddetto matrimonio riparatore, abrogato anch'esso nel 1981 e che addirittura consentiva di cancellare la violenza sessuale persino se consumata i danni di una minorenne, se lo stupratore consentiva di sposare la sua vittima. In questo modo si pensava di risarcire la donna del fatto di aver perso l'onore della virginità al di fuori del matrimonio in un'ottica proprio che codificava un potenziale legame tra violenza e amore. E del resto, come sappiamo, in Italia la violenza sessuale è diventata un reato contro la persona e non più contro la morale pubblica solo nel 1996, quindi meno di 30 anni fa. Come accennavo, da allora ci sono stati avanzamenti significativi sul piano legislativo. Ad esempio, dagli anni 90 del Novecento, il diritto internazionale ha riconosciuto che la violenza contro le donne è prodotto di un modello sociale di relazioni gerarchizzate tra i generi ancora dominato da logiche patriarcali. Sotto questo profilo un punto di svolta è stata la quarta conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui diritti delle donne che si è tenuta a Pechino nel 1995, a cui è seguita in area europea la Convenzione del Consiglio d'Europa del 2011, nota come la Convenzione di Istanbul. Ebbene, proprio nel preambolo di questa convenzione viene richiamato il carattere strutturale della violenza di genere, che va considerata e trattata come tale, dunque non come un fenomeno di devianza privata, ma come un problema politico, sistemico, che in quanto tale richiede strumenti di contrasto diversificati, quindi non solo strumenti giuridici. E la stessa convenzione di Istanbul insiste anche su un altro elemento importante, che è quello del riconoscimento della dimensione oltre che sociale e anche transculturale della violenza di genere. Che è un riconoscimento importante perché da un lato supera il pregiudizio secondo cui la violenza contro le donne sarebbe un fenomeno esclusivo delle culture altre, considerate retrograde e misogene, come se non riguardasse anche le nostre culture liberali occidentali. Dall'altra porta a escludere che, come espressamente previsto dall'articolo 12 della Convenzione di Istanbul, possono chiamarsi in causa la cultura, gli usi, i costumi, la religione o il cosiddetto onore come motivi per giustificare la violenza. con la conseguenza che almeno gli stati che hanno aderito alla convenzione non potranno più avere nei loro codici penali figure di reati come il delitto d'onore che abbiamo ricordato prima. Ora proprio il carattere innovativo della convenzione di Istanbul che a ben vedere recepisce Insomma, alcune acquisizioni fondamentali del pensiero femminista spiega probabilmente perché non tutti gli stati membri del Consiglio d'Europa abbiano provveduto a rettificarla, cioè a recepirla come diritto interno, cosa che invece ha fatto l'Italia. In paesi dell'est Europa la sua ratifica ha incontrato notevoli resistenze ed è significativo il fatto che la stessa Turchia, che nel 2011 era stato il luogo di nascita della convenzione di Istanbul, dieci anni dopo, con una decisione molto irrituale da parte del suo governo, ha deciso di ritirare la propria adesione proprio in nome della difesa dei valori tradizionali. Come accennavo, l'Italia ha invece ratificato la convenzione nel 2013, che è un anno importante, perché da allora il nostro paese si è dotato, specie a partire dalla legge 119, di un sistema antiviolenza che ha visto un costante intervento legislativo nel tentativo di dare una risposta al fenomeno. Ora, l'aspetto critico di questo sistema è che privilegia soprattutto lo strumento repressivo, ossia quello del diritto penale, sacrificando l'investimento in misure preventive, come azioni di formazione di operatori e operatrici professionali, ma anche azioni di sensibilizzazione e formazione nelle scuole per il contrasto agli stereotipi di genere. misure preventive che pure hanno un rilievo fondamentale nel sistema integrato previsto dalla Convenzione di Istanbul e che, a differenza delle misure punitive, sono anche le uniche in grado di incidere sulle cause strutturali che stanno alla base della violenza di genere. Non ho modo qui di scendere in dettagli tecnici, ma tanto il complesso delle norme contenute nel cosiddetto Codice Rosso del 2019 quanto quelle del successivo DDL Rocella del 2023 affrontano il fenomeno puntando soprattutto sull'introduzione di nuove reati e sull'inasprimento di pene per reati già esistenti come reato di maltrattamento, stalking o violenza sessuale. [00:06:39] Speaker A: Grazie mille Isabel davvero per la tua risposta. Andrei allora direttamente alla seconda. E la seconda domanda che vorrei farti è questa. Di recente si è parlato molto di una proposta di legge sui femminicidi in Italia. A tuo parere quali implicazioni potrebbe avere e quali eventuali criticità? [00:06:54] Speaker B: Sì, in effetti il 7 marzo di quest'anno, alla vigilia della giornata internazionale dei diritti delle donne, il governo a Meloni ha annunciato la presentazione di un disegno di legge, il numero 1433, il cui asseportante consiste nell'introduzione del reato di femminicidio, punito con l'ergastolo e qualificato come il delitto commesso da chiunque, quindi un soggetto neutro, provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per ostacolare l'esercizio dei suoi diritti e l'espressione della sua personalità. Questa iniziativa governativa che ha ricevuto il parere positivo del Consiglio dei Ministri, ma è ancora l'esame della Commissione Giustizia del Senato, si inserisce proprio nella più generale tendenza a trattare il problema della violenza di genere come un problema criminale, meritevole di risposte anzitutto sul piano repressivo. Quindi, come dicevamo, privilegiando uno strumento come quello penale che, se risulta il più efficace in termini di riaffermazione del ruolo dello Stato nel mantenimento dell'ordine sociale, è anche, come sappiamo, il più inadeguato a incidere sulle cause strutturali che scatenano la violenza. Peraltro, anche in questo caso si tratterebbe di una misura a costo zero, visto che il nuovo reato di femminicidio si inserisce in un provvedimento corredato dalla consueta clausola di invarianza finanziaria, che ormai da anni contraddistingue i numerosi interventi repressivi in tema di contrasto alla violenza contro le donne. Ora chi anche da una prospettiva femminista e spesso anche critica nei confronti delle derive sicuritarie difende l'opportunità di convertire il femminicidio in reato anche nell'ambito di ordinamenti giuridici come il nostro dove non mancano strumenti per punire anche molto severamente chi uccide le donne, lo fa richiamandosi all'importanza che il diritto nomini determinati comportamenti e nel sanzionarli li renda socialmente inaccettabili. Questo argomento, basato sul potenziale pedagogico, potremmo dire, del diritto penale, ha avuto sicuramente una sua ragione d'essere nel contesto di paesi latinoamericani, ad esempio si pensi al caso messicano, dove la traduzione giuridica del concetto di femminicidio elaborato dall'antropologa Marcella Lagarde perseguiva l'importante scopo di richiamare l'attenzione politica e sociale sulla drammatica e seriale uccisione di donne proprio nel contesto di un paese dove questi reati sono rimasti a lungo impuniti grazie proprio alla connivenza dello Stato e delle sue istituzioni. In Italia la situazione è un po' diversa, nel senso che i casi sempre troppo numerosi di femminicidio vengono in genere perseguiti e i suoi autori, come dimostra la recente condanna all'ergastolo di Torretta per l'assassinio di Giulia Cecchettin, vengono in genere puniti piuttosto severamente. E nel nostro paese, come ha scritto di recente Milli Virgilio, il femminicidio esiste già in senso sociologico, cioè nella rappresentazione sociale, tanto che lo ritroviamo spesso anche nel linguaggio usato dalla dottrina giuridica e dalla stessa magistratura in alcune sentenze. Naturalmente non si tratta di sminuire le responsabilità penali degli autori di violenza di genere, ma se il problema è prevenire un fenomeno strutturale, la promozione di misure che ancora una volta si limitano a invocare per le donne la protezione penale dello Stato può avere secondo me un effetto controproducente, non solo perché distoglie lo sguardo dalla rilevanza delle ben più costose azioni di prevenzione di welfare, ma perché tende a evicolare un'immagine vittimizzante delle donne. C'è poi una valutazione di carattere generale che investe il sistema della giustizia punitiva nel suo complesso. Cioè, bisogna considerare che non solo il diritto penale è stato il braccio secolare del patriarcato, ma continua a colpire nella maggioranza dei casi soggetti marginalizzati, secondo logiche classiste e razziste. e credo che il recente decreto sicurezza, da pochi giorni convertito in legge, costituisce un esempio molto significativo in questo senso. E credo che il cosiddetto femminismo punitivo, come l'ha denominato Tamar Pitch, nell'invocare misure penali ad hoc per i autori di violenza contro le donne, non dovrebbe sottovalutare le insidie legate al tipo di strumento di cui ci si intende avvalere. Senza contare che nello specifico caso del reato di femminicidio previsto nel disegno di legge di cui accennavo all'inizio, il modo in cui sono formulati gli elementi del reato con il rinvio a espressioni come in quanto donna, espressione della sua personalità, può dar luogo a incertezze interpretative e serie difficoltà in sede probatoria. con il rischio di fare di questa novità l'ennesima norma manifesto, espressione di un diritto penale solo simbolico, che è inefficace sul piano preventivo e anche scarsamente poi applicato dalla magistratura. [00:12:05] Speaker A: Grazie mille Isabella anche per questa tua risposta. Andrei allora all'ultimo punto che avrei piacere di affrontare con te. Ovviamente come sappiamo gli stereotipi di genere influenzano profondamente il modo in cui la società percepisce e affronta la violenza. L'abbiamo visto anche nelle scorse puntate. Quello che però nello specifico vorrei chiedere a te è questo. In che modo a tuo parere questi stereotipi possono riflettersi anche nelle decisioni giudiziarie? [00:12:27] Speaker B: Possiamo dire che ci sono credenze stereotipati, miti sulla violenza, che sono così radicati nella nostra cultura, anche giuridica, che condizionano pure il modo di pensare ed esprimersi di magistrati e magistrate, che sono idealizzati come soggetti terzi e imparziali, ma in realtà sono persone condizionate da rappresentazioni socialmente condivise. Un esempio quasi da manuale è quello della rappresentazione, come sappiamo spesso veicolata anche dai media, degli atti di violenza contro le donne come delitti passionali, come frutto di improvvisi e disperati gesti d'amore, raptus, cessi di gelosia e così via. Sappiamo che questa esaltazione, in fondo rassicurante, del carattere mostruoso, eccezionale della violenza contro le donne, una descrizione falsa che non trova riscontro nelle storie reali delle donne vittime ad esempio di femminicidio, la cui uccisione è quasi sempre l'epilogo di rapporti segnati da un susseguirsi di comportamenti violenti da parte di persone a loro molto vicine. Eppure l'interpretazione della violenza come reato passionale la ritroviamo in tutte quelle decisioni, in quelle sentenze che tendono a naturalizzare i motivi che hanno spinto alla violenza, riconducendola alla natura passionale incontenibile degli uomini e non invece ad una deliberata volontà di dominio. Questo proposito ha suscitato un enorme clamore mediatico, la decisione resa qualche anno fa dalla Corte d'Assise d'Appello di Bologna, che aveva concesso uno sconto di pena all'autore di un femminicidio, in quanto secondo la Corte l'uomo aveva agito in preda a una soverchiante tempesta emotiva, determinata appunto da una gelosia incontrollabile. Ora, in questa, come in analoghe decisioni, gli esempi sarebbero numerosi, viene riproposto che cosa? Il consueto stereotipo dell'uomo come portatore di impulsi emotivi irrefrenabili e, come molti stereotipi, anche questo si basa su una credenza falsa. Diciamo, l'errore consiste nel ritenere che questi impulsi siano da ricondursi a istinti naturali, in qualche modo sconnessi a precise visioni del mondo. Come invece ci ha insegnato la sociologia delle emozioni, penso ad esempio ai lavori molto belli di Gabriella Turnaturi, anche il modo in cui esprimiamo le nostre emozioni è spia dei rapporti di potere che informano il nostro contesto sociale e riproduce precise visioni del mondo, compreso un certo modo di concepire le relazioni tra uomini e donne. Pertanto anche un concetto emozionale come la gelosia sottende in realtà una visione della donna come un oggetto che sfugge al controllo e l'adesione a quella che è conosciuta come la cosiddetta ideologia dell'amore romantica, cioè l'ideologia che ha permeato l'educazione di intere generazioni di bambine e bambini insegnando loro che l'amore è litigarello, che in fondo l'amore è sempre potenzialmente violento. Ora, il ricorso a stereotipi sessisti nelle decisioni della nostra magistratura ha richiamato l'attenzione della Corte europea dei diritti umani che nel 2021 ha condannato l'Italia anche in considerazione degli effetti di vittimizzazione secondaria che derivano da questo tipo di decisioni. Il caso si riferiva in particolare a una sentenza della Corte d'Appello di Firenze, la cui motivazione, a detta della Corte europea, si basava su valutazioni colpevolizzanti, moralizzanti, su una donna vittima di uno stupro di gruppo, alla quale durante il processo erano state rivolte domande sulle sue relazioni sentimentali pregresse, su suo orientamento sessuale, sull'abbigliamento durante l'aggressione. domande che erano del tutto fuori luogo in quanto irrilevanti ai fini della valutazione della credibilità della donna che aveva denunciato la violenza. E proprio quello della credibilità della testimonianza resa dalle donne vittime di violenza è un altro ambito dove spesso si anidiano stereotipi che in quanto tali non sono solo descrittivi in quanto offrono una certa rappresentazione della violenza della vittima e dell'aggressore ma hanno anche una valenza prescrittiva nel senso che assumono questa rappresentazione come norma come modello di riferimento rispetto al quale vengono misurati e confrontati specifici fatti di violenza realmente accaduti. Ad esempio rispetto al modo in cui la violenza deve essere raccontata di chi sostiene di averla subita, in letteratura si individuano almeno tre miti, sono molto di più ma mi limito a ricordare questi. Il mito secondo cui le vere vittime denunciano immediatamente la violenza subita, mostrano profonde reazioni emotive quando raccontano gli eventi accaduti, e sono sempre in grado di darne un resoconto approfondito e accurato. Sappiamo benissimo che si tratta in realtà di credenze infondate, dal momento che la vittima di una violenza potrebbe avere mille motivi per denunciare il fatto a distanza di tempo, narrarla con compostezza e autocontrollo e il trauma subito potrebbe avere alterato i suoi ricordi e quindi certe incongruenze nella sua ricostruzione dei fatti non sono necessariamente indice di mancanza di credibilità. Il problema qual è? E' che quando questi falsi miti entrano nelle aule dei tribunali in forza della loro forza prescrittiva diventano il metro di giudizio della vera vittima e quindi la donna che nell'arrare la violenza subita si discosta da essi perde credibilità. E in questo caso la vittimizzazione secondaria consiste in quella che Miranda Fricker chiama ingiustizia testimonale, che colpisce le voci silenziate, quello delle donne che non vengono credute proprio nelle loro testimonianze a motivi di pregiudizio stereotipi. Un'altra credenza stereotipata che nei processi tende spesso a intaccare la credibilità delle donne vittime di violenza, in particolare di violenza sessuale, riguarda la dimensione del consenso, rispetto al quale è diffusa l'idea che la donna che subisce violenza debba essere reattiva, reagire velocemente, resistere con tutta la sua forza fisica e recare traccia sul suo corpo della violenza subita. E quindi, pur essendo vittima, la donna è comunque tenuta a provare di non aver dato il proprio consenso al rapporto sessuale e se non lo fa, aderendo proprio all'ideale di vittima che l'uditorio si attende, rischia anche in questo caso di perdere credibilità. E quanto recentemente è accaduto a una Donna Hostess che, secondo la Corte d'Appello di Milano, non aveva reagito prontamente alla violenza sessuale di un uomo, visto che, secondo i giudici, la finestra temporale prima dello stupro, 20-30 secondi, avrebbe in realtà consentito alla donna di fuggire. Il punto è come evitare questo tipo di decisioni, come evitare che il linguaggio usato nel processo diventi diritto che, anziché proteggere le donne, le discrimina ulteriormente e le ferisce ulteriormente. non bastano gli strumenti giuridici che vietano la vittimizzazione secondaria perché di questi strumenti ne abbiamo, ricordo ad esempio la cosiddetta direttiva vittime adottata al Parlamento europeo nel 2012 e recepita anche nel nostro ordinamento con norme specifiche che però alla luce diciamo degli esempi che abbiamo fatto sono norme evidentemente inefficaci. Sicuramente ci vorrebbe un'adeguata formazione di magistrate, magistrate, avvocate e avvocati e sotto questo profilo credo che anche i dipartimenti di giurisprudenza, diciamo, delle nostre università abbiano un'importante responsabilità, nel senso che oltre ad attrezzare gli studenti delle conoscenze tecnico-giuridiche fondamentali per l'accesso al mondo delle professioni legare e dovrebbero anche fornire loro strumenti per una giurisprudenza libera da quegli stereotipi che poi sono con causa della violenza di genere. [00:20:15] Speaker A: Grazie mille davvero Isabel per averci aiutato a capire un po' meglio questo legame molto spesso non affrontato in maniera adeguata dai media e dai discorsi mainstream come ben sappiamo e non solo. Quindi non solo grazie per le tue competenze ma soprattutto grazie per il tuo tempo. [00:20:30] Speaker B: Grazie a te Matteo e complimenti per questa iniziativa. [00:20:34] Speaker A: E ovviamente grazie mille a tutte le persone che ci hanno ascoltato. Al prossimo episodio. Ciao!

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